Che fine ha fatto la borghesia? E perché è scomparsa? A Giuseppe De Rita, presidente del Censis e sismologo della società italiana, viene in mente quella pagina di Napoli milionariain cui il protagonista torna dalla guerra e trova una famiglia a pezzi. «Che cosa è successo? Ma perché siamo diventati così?», si interrogano i diversi personaggi in un crescendo drammatico. La stessa cosa – aggiunge De Rita – dovrebbero fare i borghesi italiani, razza ormai estinta. Se già quindici anni fa nell’Intervista sulla borghesia in Italia la diagnosi non inclinava a ottimismo, nel nuovo saggio scritto insieme ad Antonio Galdo – L’eclissi della borghesia – la sentenza volge al requiem (Laterza, pagg. 92, euro 14). La borghesia è sepolta, o forse non è mai nata.
Una certificazione di morte.
«Direi meglio, la fine di una speranza. S’è esaurita l’idea di una classe dirigente capace di farsi carico degli interessi collettivi. Sin dall’origine dello Stato nazionale, ci siamo illusi che da segmento relativamente piccolo – spazio intermedio tra cultura popolare e cultura d’élite – questo gruppo sociale sarebbe cresciuto fino a governare le sorti del paese. Questo non è accaduto. O è accaduto fino a un certo punto».
La borghesia svolse un ruolo centrale nel processo risorgimentale e nell’Italia liberale.
«Sì, ma le cose si complicano già sotto il fascismo, che comunque mantiene lo spazio per un’élite borghese, ossia gli uomini formati da Alberto Beneduce. E nel dopoguerra non mancò certo una classe dirigente che seppe ricostruire un paese distrutto e screditato sul piano internazionale».
Quando comincia il declino?
«Negli anni del boom economico, con la grande avventura dell’italiano medio. È stata la cetomedizzazione della società italiana – mi piace chiamarla così – a causare la definitiva eclissi della borghesia».
Come è accaduto?
«Fino agli anni Cinquanta la società era divisa in tre fasce. La classe esigua dei padroni. La classe numerosa di braccianti e operai. E un ristretto ceto medio, tra amministratori di latifondo e impiegati dello Stato. Tutto cambia quando scatta la molla del benessere. Allora si mette in moto un processo di imborghesimento collettivo. Una vera esplosione che risucchia dall’alto e dal basso tutti i settori della società».
Nasce l’imprenditoria di massa.
«La corsa al benessere accentua le nostre caratteristiche di popolo individualista. Proliferano comunità di piccoli imprenditori, piccoli commercianti, piccoli professionisti. In un solo decennio, tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta, lo stock delle aziende è raddoppiato, passando da 490.000 a un milione. Diventiamo un paese di ex poveri, con l’illusione di essere tutti borghesi».
Che significa?
«Adottiamo gli stessi stili di vita. L’automobile. La casa di proprietà. Il figlio all’università. Magari la botteghina per la moglie. Anche gli arredi si uniformano: alle credenze di legno scuro subentrano i mobili bianchi. Scopriamo la vita agiata e la confondiamo con una vita borghese».
Qual è la differenza?
«Si perde di vista l’interesse collettivo. Prevale il primato del benessere e della sicurezza, nell’indifferenza verso gli altri. In altre parole, lo spazio intermedio precedentemente occupato dalla borghesia viene invaso da questo nuovo ceto, che è preoccupato solo di mantenere lo status raggiunto e non riesce a esprimere unaclasse dirigente dallo sguardo lungo».
Ma perché accade in Italia e non altrove? Il boom economico non fu una nostra peculiarità.
«La nostra peculiarità fu una Democrazia Cristiana che costruì il suo consenso sui cosiddetti “collaterali”: i coltivatori diretti, gli artigiani, i sindacati scolastici, le cooperative bianche. Se ci fa caso, ancora ieri a Todi all’incontro sul partito cattolico hanno partecipato Confartigianato, Confcooperative, Coldiretti. Non si chiamano più collaterali, ma sono sempre loro».
Lei sta dicendo che per cinquant’anni abbiamo favorito le corporazioni, le categorie, le piccole tribù?
«Sì, l’abbiamo fatto usando il carburante della spesa pubblica. Lo Stato è diventato un gigantesco erogatore. E con i suoi soldi il ceto medio italiano ha visto garantiti benessere e stili di vita superiori alle proprie possibilità».
Ci siamo illusi di non essere più poveri, ma in realtà abbiamo continuato a esserlo.
«L’economista Vittorio Parsi sostiene che in tutti i processi storici c’è un soggetto che garantisce il sistema e poi ci sono ifree ridersche fanno i loro affari. Per esempio, nessuno può dire che il primato americano sia finito perché è il primato americano che consente a cinesi, indiani e brasiliani di fare i free riders».
Che c’entra l’Italia?
«Per vari decenni lo Stato italiano ha avuto il ruolo di Grande America, ossia ha garantito il contesto entro cui i free riders hanno potuto fare le loro scorrerie: gli imprenditori sommersi, gli artigiani senza fattura, anche i supplenti della scuola che chiedevano di entrare in ruolo. Tutto ciò ha rosicchiato le finanze pubbliche ma ha eroso anche il contesto. Oggi i free riders non possono correre più perché manca la cornice».
Non c’è più lo Stato italiano?
«Non c’è più la spesa pubblica. Ma la crisi della finanza pubblica è anche la crisi della credibilità sociale dello Stato. E guardi: tutti abbiamo ucciso lo Stato, anche chi non si fa consegnare la fattura dall’idraulico o dal giardiniere. L’Italia è stata un gioioso paese di free riders, inconsapevoli del fatto che prima o poi sarebbero rimasti senza intelaiatura».
Per la prima volta nella storia nazionale italiana ai figli non è garantito il benessere raggiunto dai padri.
«Da qui nascono paura e spaesamento. Il mutamento profondo che abbiamo descritto è stato guidato da cetomedisti e piccoli imprenditori preoccupati solo di arrivare al pianerottolo più alto. Quando bisogna scendere di un piano, scoppia il casino. I nostri indignados, pur mescolandosi nel movimento fattori molteplici, vengono prevalentemente da qui».
Non c’è il rischio di essere riduttivi?
«Il sistema s’è inceppato e sicuramente la nostra generazione non è stata capace di garantire a questi giovani un futuro. Ma è anche vero che la fatica che abbiamo fatto noi i nostri figli non la vogliono fare. Quando tra il ’67 e il ’68 arrivai a Prato, rimasi sconvolto dai ritmi infernali delle famiglie che lavoravano nel sommerso. Ora i figli di quegli eroi si lamentano per la concorrenza dei cinesi. Ma loro che fanno? Se fanno i finanzieri è pure troppo».
Non è nata una nuova classe dirigente.
«Se guardiamo come è cresciuta la classe dirigente confindustriale, vediamo che è un modo tutto interno alla corporazione. Da Abete alla Marcegaglia, sono tutti ex giovani imprenditori – ossia figli di imprenditori – che hanno fatto carriera all’interno di un processo semiburocratico. Analogo appare il meccanismo di promozione nel pubblico impiego. Una volta i direttori generali dei ministeri erano figure di profilo altissimo. Oggi, se escludiamo il Ragioniere Generale dello Stato e pochi altri, per la massima parte sono figure inconsistenti, magari brave ma non classe dirigente».
Dottor De Rita, lei come si definirebbe?
«Un vero cetomedista. Una madre maestra elementare e un padre direttore di banca. I miei genitori, figli di persone più povere, erano orgogliosissimi di dire “noi, ceto medio”. La tragedia scoppiò quando decisi di lasciare il Comune di Roma. Rinunciavo al posto fisso. Mi fecero chiamare dal direttore generale: “Ma lei è matto? Ha vinto il primo concorso del dopoguerra, a 50 anni potrebbe conquistare il posto di vice Capo Ripartizione…”. La sola idea mi indusse alla fuga. Mia madre pianse per una settimana. Temeva che ridiscendessi quelle scale che lei aveva salito con tanta fatica».
Vuol dire che per diventare classe dirigente è necessario rischiare?
«Non bisogna rimanere abbarbicati al proprio pianerottolo. Questa paura è molto diffusa anche tra i miei amici, e i figli dei miei amici. Per uscire dalla palude c’è bisogno di coraggio».
Intervista di Simonetta Fiori a Giuseppe De Rita da “La Repubblica” del 20 ottobre 2011