IL DECLINO DELLE RINNOVABILI: NEL 2012 INVESTIMENTI A PICCO

rinnovabiliGreen economy come antidoto alla crisi? A giudicare dall’andamento del settore delle energie rinnovabili si direbbe di no. Nel 2012, secondo i dati di Bloomberg New Energy Finance, nel mondo gli investimenti in questo tipo di energie sono diminuiti dell’11%, come conseguenza del taglio agli incentivi deciso praticamente da tutte i Paesi più sviluppati.
Ma se il dato mondiale è già preoccupante, quello italiano è clamoroso: Bloomberg registra infatti per l’Italia una flessione del 51% a 14,7 miliardi di dollari. Lo studio sottolinea invece la buona tenuta del mercato cinese (+20%), il primo del mondo davanti agli Usa (-32%) e al Giappone, ma anche l’incredibile scatto del Sudafrica, passato a 5,5 miliardi di dollari da poche decine di milioni del 2011.
In forte calo sono invece, oltre all’Italia, l’India (-44%), che ha sofferto del colpo di freno all’eolico e
al solare da parte delle autorità locali e la Spagna (-68%), strangolata dalle politiche di austerity. Meno vistosi, ma sempre con il segno meno, gli andamenti di Francia (-35), Regno Unito (-17%) e della locomotiva Germania (-27%). A fare la parte del leone, comunque, è sempre il solare, con 142,5 miliardi di dollari, seguito dall’eolico con 78,3.
Complessivamente lo scorso anno l’industria dell’energia verde ha stanziato 268,7 miliardi di dollari (poco più di 200 miliardi di euro), contro il record di 302 miliardi del 2011. Malgrado il calo, il dato del 2012 è comunque il secondo della storia e vale cinque volte quello registrato nel 2004.
Secondo il dirigente del Bnef Michel Liebreich, comunque, “l’aspetto più sorprendente è che il declino non sia stato ancora più forte, viste le turbolenze alle quali le energie rinnovabili sono state sottoposte nel 2012, a causa delle incertezze sulle politiche di sostegno, la crisi in corso in Leggi tutto: http://www.rassegna.it/articoli/2013/01/14/95958/il-declino-delle-rinnovabili-nel-2012-investimenti-a-picco

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Divisi contro la disoccupazione
L’11,8 per cento dei cittadini dell’eurozona non ha un impiego, l’ennesimo record negativo dall’inizio della crisi. Ma i paesi europei non sembrano disposti ad armonizzare le proprie politiche per far fronte all’emergenza.
di Laurent Jeanneau
A quattro anni dall’inizio della crisi, l’Europa è tuttora alle prese con un mercato del lavoro depresso. Per ritornare ai livelli di occupazione del 2008 bisogna creare 2,7 milioni di posti di lavoro nella zona euro e 2,8 nell’Unione europea. Nell’insieme dell’Unione, il numero dei disoccupati è aumentato di otto milioni in quattro anni e il tasso di disoccupazione è passato dal 7,1 all’11,8 per cento.
Non tutti i paesi sono colpiti dalla disoccupazione in egual misura. La caduta dell’occupazione è stata vertiginosa nei paesi oggetto della crisi finanziaria o di un eccessivo debito pubblico: dal 2008 Irlanda e Spagna hanno perso un posto di lavoro su sei, la Grecia uno su sette, il Portogallo uno su dieci. Fuori dalla zona euro, i paesi baltici e la Bulgaria hanno pagato anch’essi un pesante tributo alla crisi. Invece Polonia, Belgio, Germania, Austria e Svezia ne escono in condizioni nettamente migliori: sono infatti riusciti a superare – anche se di poco – i livelli occupazionali del 2008. Tra questi due estremi, la Francia si colloca leggermente sotto ai suoi livelli di prima della crisi, secondo i dati di Eurostat.
Come spiegare queste divergenze? A fare la differenza è stata la politica del lavoro attuata dai vari paesi, e non soltanto l’intensità con la quale 2009 la recessione ha colpito. Invece di armonizzare le loro risposte di fronte della crisi, gli stati europei hanno scelto strategie diverse, con risultati più o meno positivi.
In alcuni paesi l’adeguamento dell’occupazione alla crisi che ha colpito il mondo del lavoro è stato totale: a fronte del calo degli ordini, le imprese hanno immediatamente tagliato il personale per mantenere i loro margini di guadagno. Questo, per esempio, è accaduto nel Regno Unito, dove il mercato del lavoro è molto flessibile. In Spagna e in Danimarca il lavoro è calato più drasticamente della domanda rivolta alle aziende, e questo si è tradotto in consistenti aumenti della produttività e in un cospicuo incremento della disoccupazione. Spesso sono i lavoratori precari a fungere da variabile di adeguamento, in quanto il loro contratto non è rinnovato. Di conseguenza i paesi con la maggiore flessibilità del lavoro sono stati anche quelli che hanno visto decollare più rapidamente il loro tasso di disoccupazione.
In altri paesi, invece, l’adeguamento dell’occupazione è stato soltanto parziale. A fronte di un calo della domanda, le aziende hanno preferito ridurre il numero delle ore lavorative o abbassare il salario dei propri dipendenti che licenziarli. Si è adottata questa strategia per lo più in Germania, in Belgio e in Italia, grazie al ricorso intensivo alla semi-disoccupazione. Questo è anche il caso – seppure in misura minore – della Francia: con il calo della produzione i sacrifici sono stati divisi tra tutti i dipendenti delle singole aziende, invece di gravare interamente sui licenziati.
Sono state adottate anche altre politiche: in Austria, per esempio, si è scelto di offrire sussidi fino all’inizio del 2011 ai posti di lavoro poco o affatto qualificati. In realtà, in linea generale sono proprio i mestieri con poche qualifiche ad essere stati sacrificati per primi. Ungheria, Slovacchia, Regno Unito, Finlandia, Svezia, Francia e Spagna hanno sostenuto anch’essi la domanda di lavoro, per favorire l’assunzione dei giovani, dei lavoratori di mezza età o dei lavoratori poco qualificati, ma in modo più contenuto e con risultati inferiori.
Al contrario, è stato in genere limitato il ricorso al lavoro sussidiato e finanziato in gran parte dal potere pubblico. Tra il 2007 e il 2009 il numero di tali interventi è calato del 15 per cento nell’Unione europea. Lo strumento più utilizzato è stato la formazione professionale. Ma al di là di un relativo consenso su quest’ultima, la crisi non è stata l’occasione per armonizzare le politiche sociali in Europa. Alcuni stati restano propensi a lasciar andare le cose, mentre altri intervengono in modo più consistente. Nel 2010 le spese per l’occupazione variavano dallo 0,7 per cento del pil nel Regno Unito al 3,9 per cento in Spagna, passando per il 2,3 per cento della Germania, il 2,5 della Francia, il 3,4 della Danimarca e il 3,8 per cento del Belgio.
In tale ambito l’idea difesa dalla Francia e allo studio della Commissione di instaurare un sistema di assicurazione per la disoccupazione su scala europea assomiglia a un rompicapo. Perché in effetti anche in materia di indennità di disoccupazione regna la cacofonia: le regole sono diverse da un paese all’altro e i sistemi di indennità sono più o meno generosi.

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