Di Vittorio Luciani
Credo possa essere utile riflettere sulla funzione educativa della famiglia nell’epoca postmoderna, la nostra epoca.
L’aspetto che mi preme valorizzare del mio intervento è cogliere la connessione esistente tra le modificazioni sociali e l’organizzazione familiare, la funzione genitoriale, lo sviluppo psicologico dei minori.
Su questo punto credo che il Consultorio Familiare costituisca un osservatorio privilegiato per ‘leggere’ il disagio presente nella nostra comunità. In questi ultimi due decenni da un lato abbiamo constatato il crescere del disagio delle famiglie, delle coppie, dei minori e dall’altro la sua trasformazione in un disagio sempre più radicato e più difficile da trattare.
Più difficile da trattare non soltanto a causa dell’esiguità delle risorse professionali a disposizione – sempre le stesse dinanzi ad un disagio crescente – ma a causa di una maggiore ‘malignità’ del disagio stesso.
Debbo aggiungere poi che questo fenomeno rilevato nella nostra comunità non è affatto dissimile da quanto riportato dagli studi e dalla letteratura internazionale: il malessere esistenziale dell’uomo postmoderno è un fenomeno che appartiene all’intero mondo globalizzato. Anche l’incontro con la sofferenza ci ricorda che viviamo nell’epoca della globalizzazione. Uno degli effetti della mutazione della nostra società mi sembra chiaramente rivelato dalla trasformazione dell’organizzazione familiare: dalla famiglia allargata propria dei primi anni del 900, siamo prima passati alla famiglia nucleare (composta da genitori e figli) e poi ad una forte erosione di quest’ultima, affiancata sempre di più dalla famiglia ricostituita, da quella monoparentale (generalmente composta da madre e figli) e da quella unifamiliare (composta da persone che vivono sole). Siamo dunque dinanzi ad una crescente atomizzazione, parcellizzazione della famiglia. Il comune denominatore della mutazione della morfologia della famiglia è rappresentato dalla fragilità dei legami parentali: come se la convivenza sotto lo stesso tetto sia diventata nel nostro tempo più problematica. Come se le aspettative riposte nel partner risultino alla fine sempre deludenti, come se al partner venisse chiesto di colmare una mancanza troppo grande, di colmare ciò che non è possibile colmare. Nel momento stesso della formazione della coppia è come se fosse già implicitamente presente un interrogativo, un dubbio, sulla durata del vincolo pattuito.
Come se nel passaggio alla coniugalità ci si aspettasse un arricchimento senza perdita. Sappiamo invece che ogni passaggio dell’esistenza comporta un guadagno ed una perdita: si acquisiscono nuovi diritti e nuovi obblighi, si abbandona una condizione nota per una che presenta incognite, e così via.
Ira Glick in una vasta ricerca demografica condotta negli Stati Uniti ha messo in luce che il tasso di separazioni e di divorzi riguarda una coppia su due. Il 79% delle donne e l’83% degli uomini che si risposano, nell’arco di 5 anni, nel 50% dei casi divorzia nuovamente.
Dinanzi a questi dati gli studiosi non si interrogano più sugli indicatori che fanno sì che le coppie si disfano, bensì su quelli che possano gettare una luce sui motivi per cui le coppie riescono a tenere.
Gli Studi effettuati In Inghilterra indicano addirittura che il secondo matrimonio è ancor meno stabile del primo, vale a dire che in questo caso è ancora più probabile che possa concludersi con un divorzio.
C’è poi un ulteriore criticità propria del momento in cui le coppie si disfano. Sino a qualche decennio fa le separazioni non facevano dimenticare agli ex coniugi che, comunque, rimanevano madre e padre, non facevano dimenticare che la fine di un amore non eclissava la funzione genitoriale.
Oggi, al contrario, sempre più di frequente la perdita della funzione coniugale si accompagna alla perdita della funzione genitoriale: nel momento in cui si smette di essere coniugi si smette di essere anche genitori. I figli divengono la posta in gioco di un rancore sordo che non sembra placarsi in nessun modo. Vengono presi in mezzo ad un’insostenibile “conflitto di lealtà”. Ancora di più se uno dei due ex coniugi ricostruisce una nuova famiglia. Al punto che come accade da tempo negli Stati Uniti e come sta accadendo adesso anche da noi ci sono madri che pur di impedire al padre di incontrare i figli, non disdegnano di accusarlo ingiustamente di aver portato violenza su di loro. Gli uomini invece utilizzano come arma di ricatto il mancato sostegno economico alla ex moglie. In questi casi siamo dinanzi a due persone che non sono riuscite a star bene assieme ma neppure riescono a star bene separatamente.
Non è difficile per nessuno immaginare i danni psicologici che si possono produrre sui figli in conseguenza di una reciproca delegittimazione. Se a causa dei propri irrisolti problemi esistenziali gli ex coniugi distruggono reciprocamente nei figli l’immagine dell’altro genitore impediscono loro di fare quelle identificazioni essenziali per trovare un posto degno nell’esistenza. I figli rischiano, in un certo senso, di divenire orfani pur avendo i genitori viventi. Ora, che la coppia si disfi, e si disfi spesso malamente, per un eccesso di narcisismo ce lo mostra un altro fenomeno critico. Oltre al disfacimento amoroso c’è infatti un’altra crisi che attraversa la coppia. Non c’è, infatti, soltanto una crisi a valle, quella che concerne le coppie costituite, c’è anche una crisi a monte. Si tratta della difficoltà a costituire una coppia, fenomeno questo su cui non ci si sofferma a sufficienza. I giovani in particolare, fanno fatica a mettersi assieme, mostrano una scarsa vocazione a legarsi compiutamente ad un partner amoroso. Ad esempio nella fascia di età compresa tra i 25 ed i 34 anni, solo il 45% degli italiani vive in coppia. La formazione della coppia viene spostata sempre più in là nel tempo.
In Italia dal 1993 al 2003, dunque in dieci anni, i celibi sono cresciuti di 2 milioni e mezzo.
Ciò accade perché il passaggio alla vita di coppia non è visto come un’apertura verso nuovi orizzonti esistenziali bensì come un loro restringimento. Della vita di coppia si vorrebbero prendere solo gli aspetti piacevoli ma non quelli che impegnano. Il passaggio al vincolo implica, invece, uno scambio tra soggetti adulti e su base paritaria. Lo scambio implica un dare e ricevere reciprocamente cura ed attenzione. Implica sostenersi reciprocamente. Meglio allora rimanere nel proprio nucleo familiare originario in cui è possibile avere il meglio senza assumersi eccessive responsabilità (e non si tratta affatto di un fenomeno legato alla crisi economica). Tuttavia le modificazioni delle forme della famiglia, la volatilità della coppia, la rinuncia alla funzione genitoriale, non sono le sole cause del malessere dei nostri ragazzi.
Oltre al fenomeno di quelle che possiamo definire le famiglie patologiche (intese cioè come quei nuclei che non riuscendo a collocare i figli nell’ordine delle generazioni portando su questi ultimi devastanti forme di violenza – sessuale, fisica, psicologia -,tema che è già stato trattato nel corso delle giornate precedenti) c’è un fenomeno apparentemente meno visibile, ma non per questo meno preoccupante, che non riguarda gli effetti psicologici sui figli legati alla frantumazione della famiglia, ma che riguarda le conseguenze sui figli di quella che comunemente viene ritenuta una famiglia normale. In questi nuclei familiari infatti, i genitori con sempre maggior frequenza incontrano difficoltà inedite nel rispondere alle necessità affettive e psicologiche della propria prole. Nel sostenere questa tesi mi attengo ai numerosissimi dati offertici sia dalla mia personale esperienza e dalle numerose ricerche su questo tema.
Dall’inizio del Novecento tra i nostri giovani sono aumentati con ritmo costante il numero dei suicidi, la depressione, gli attacchi di panico, i disturbi del comportamento alimentare, l’uso e l’abuso di droghe (l’alcol in particolare), la difficoltà a stare assieme agli altri e il conseguente ripiegamento nella solitudine (hikikomori). Cosa che correlativamente ha comportato un crescente ricorso all’uso degli psicofarmaci, antidepressivi ed ansiolitici in particolare. La maggior parte di questi ragazzi così problematici vive all’interno di famiglie ritenute, almeno statisticamente, normali.
Se è scontato sostenere che i ragazzi possano star male quando fanno parte di famiglie che si disgregano, perché mai dovrebbero soffrire in famiglie che non paiono attraversate da un disagio evidente?
Per poter leggere questo fenomeno dobbiamo partire da una considerazione che io ritengo fondamentale: la nostra società, passando dalla modernità alla post modernità, ha subito un mutamento radicale.
Si tratta di una transizione che ha prodotto una discontinuità sostanziale nell’esistenza dell’uomo occidentale. Da psicoanalista preferisco dire che siamo passati dalla “società del desiderio” alla “società del godimento”. Uso di proposito il significante godimento e non quello di piacere perché tra le due parole c’è un’antinomia. Il piacere è compatibile con il bene dell’individuo e con la vita sociale, il godimento, invece. è per l’individuo un piacere nocivo, mortifero per l’individuo e non compatibile con il bene comune.
Se, ad esempio, bere un buon bicchiere di vino è dell’ordine del principio di piacere, ubriacarsi è dell’ordine del godimento. Nel primo caso si accede ad uno dei possibili piaceri dell’esistenza, nell’altro si utilizza un potenziale piacere per farsi del male.
Che cosa era (che cos’è) una società del desiderio?
Era (è) una società che aveva al suo vertice valori, principi, ideali, che guidavano gli individui nella costruzione di una progettualità capace di rendere compatibile il proprio benessere con quello degli altri.
I valori trasmessi dalla società attraverso la famiglia permettevano di porre un limite alle spinte pulsionali dell’essere umano e lo costringeva a fare un lungo giro all’interno dei possibili percorsi stabiliti dalla comunità per poter accedere alle soddisfazioni desiderate. Si trattava cioè di una società che faceva del desiderio il motore dell’esistenza. Il cammino, il viaggio, come ci ricorda giustamente Stevenson è più importante della meta. In questa società il compito dei genitori era meno complicato di quello dei genitori del nostro tempo, perché il privato ed il sociale parlavano lo stesso linguaggio. Ciò che era trasmesso dalla famiglia lo si ritrovava a scuola e negli altri luoghi del sociale. C’era un’osmosi tra il dentro ed il fuori le mura domestiche. Se i genitori non si mostravano all’altezza del loro compito educativo erano allora i parenti ed il contesto comunitario che si incaricavano di vicariare la loro funzione. I ragazzi erano in presenza di una trasmissione educativa che tentava di rendere compatibile la libertà personale con la coesione sociale. Per essere liberi era perima necessario omologarsi, ma si trattava di una omologazione che aveva a che fare con l’etica, un’omologazione che poneva ancora l’individuo al centro del mondo.
Non si tratta ovviamente di idealizzare ciò che è stato a discapito di ciò che si vive nel presente (attitudine che risponde ad un’inclinazione spontanea della mente). Si tratta tuttavia di sottolineare che vivere dentro ad una società i cui membri sono legati da un sentimento condiviso della vita alleggerisce l’uomo dall’angoscia. Certo il disagio psicologico non scompare ma è legato alla richiesta di una rinuncia pulsionale.
Che cos’è invece una società del godimento?
E’ una società, la nostra ma ancor più sarà quella dei nostri figli, in cui all’apice del discorso sociale non ci sono gli ideali, ma la spinta a godere.Questo mutamento non fa più dell’uomo il centro del mondo, il fine ultimo di ogni discorso sociale, ma ne fa un mezzo. Gli uomini non si sostengono attraverso la condivisione di valori, ma, al contrario, sono asserviti ad una spinta mortifera volta a perseguire una felicità assoluta, una felicità che non si trovano mai. La società dell’iperconsumo ha trasformato l’uomo in un consumatore famelico, in una sorta di turbo-consumatore. Si veda, solo per fare un esempio, il fenomeno dell’obesità.
La società postmoderna offre l’illusione di una libertà senza limiti. Ma una libertà senza confini è una libertà che non può che esaltare il proprio narcisismo, dunque non può che esaltare l’umana stupidità. Il narcisismo è infatti l’illusione che la mancanza strutturale dell’essere umano possa essere colmata dai gadget del mercato, dalle offerte della pubblicità.
L’esaltazione della stupidità umana non è, tuttavia, priva di conseguenze: fa ammalare l’essere umano ed in particolare i bambini, i ragazzi, gli adolescenti. La ricerca di un piacere impossibile si rivela infine un godimento nocivo, un godimento che si mostra attraverso la malattia.E’ questo il problema che si trova dinanzi la famiglia postmoderna: in mancanza di un discorso comune con il sociale, visto che quest’ultimo mostra sempre più spesso il suo volto inaccettabile, forse per la prima volta nella storia la famiglia deve mettere in campo un progetto capace di permettere ai figli di fronteggiare e, per quanto possibile, contrastare questa spinta a farsi del male. Se partiamo dall’assunto che il sociale, attraverso i media, si insinua costantemente dentro le nostre famiglie e porta avanti un discorso teso a rendere l’essere umano un oggetto, un mezzo, qualche cosa da consumare, è evidente che ai genitori è richiesto qualche cosa in più rispetto a quanto veniva chiesto loro in passato. Se oggi mantenere il patto coniugale implica che la coppia sia in grado di alimentarlo mettendosi in gioco personalmente (a differenza di un tempo in cui la stabilità era garantita soprattutto dalla coesione sociale) è altrettanto vero che oggi la funzione genitoriale implica dispiegare compiutamente le proprie risorse psicologiche ed affettive affinché la parola dei genitori risulti autorevoli.
Che cosa può significare per i genitori del nostro tempo prendersi cura dei figli in modo responsabile?
Dal mio punto di vista il progetto genitoriale non può essere che quello volto a far incontrare ai figli un limite simbolico. Là dove la società spinge a cercare una completezza immaginaria, l’educazione esalta al contrario la finitezza. L’educazione deve avere come obiettivo quello di frenare la spinta al godimento presente in ogni uomo, affinché i figli possano sviluppare gli anticorpi verso i messaggi seducenti che vengono dalla società. Ma affinché i genitori possano muoversi in tal senso è necessario che loro per primi non vengano presi dal desiderio di rendere il figlio colui che è incaricato di soddisfare la brama della loro riuscita sociale conformemente agli stereotipi proposti dalle mode. Occorre davvero accompagnare il figlio nel suo lungo percorso attraverso l’infanzia e l’adolescenza facendo in modo che comprenda che lo si accetta con i limiti e le qualità che gli sono propri. I limiti con cui il figlio deve fare i conti, sono i propri limiti: deve imparare ad avere dimestichezza con la propria imperfezione, deve fare della propria finitezza psicologica ed esistenziale la pietra angolare per poter attraversare la vita in modo non patologico.
Questo è possibile solo se i genitori permettono al figlio reale di prendere il posto del figlio immaginario.
Quando un figlio sa che dinanzi alle difficoltà della vita, dinanzi alle sconfitte ed agli scacchi, che inevitabilmente incontrerà, potrà contare su genitori che non si sentono delusi ma che al contrario riescono a sostenerlo nel suo lavoro di costruzione della propria soggettività, allora possiamo dire che quel figlio è salvo, perché spenderà le proprie energie per portare avanti i suoi progetti di vita, per coniugandoli con i suoi sogni. In caso contrario è più probabile che questi ragazzi angosciati da una completezza che non riescono ad agguantare tenderanno a prendere a prestito, a rincorrere, i modelli offerti dall’immaginario sociale. La posta in gioco nei progetti educativi del nostro tempo è quella di rendere consapevoli i nostri figli che è più utile ascoltare i propri genitori piuttosto che essere sedotti da quelli che potremmo definire genitori anonimi e virtuali. Quella che viene definita la tirannia dei figli sui genitori, è una conseguenza del fatto che i figli, sedotti dai messaggi dei media, a loro volta costringono i genitori a piegarsi alle proprie voglie. Questo fenomeno ci mostra il fallimento dell’intervento educativo genitoriale dinanzi allo strapotere dei messaggi pubblicitari la cui forza risiede non tanto e non solo nel messaggio esplicito, ma soprattutto, come si dice tecnicamente, nell’aspetto metacomunicativo dei messaggi, nel loro aspetto nascosto, che assume ancora più rilievo grazie alla passività di chi vi è esposto.
Occorre, allora, che i genitori riescano a trasmettere al figlio la differenza che corre tra il prendere e l’essere presi dal mondo. In altri termini i genitori hanno il compito di insegnare loro che c’è una differenza abissale tra il desiderare credendo che esiste per davvero l’oggetto del desiderio o desiderare grazie al fatto che si è consapevoli che l’oggetto del desiderio non esiste.
CURRICULUM
Vincenzo Luciani è laureato in Psicologia presso la Facoltà di Psicologia dell’ Università degli Studi di Roma. Iscritto presso l’Albo degli Psicologi della Regione Marche, presso l’elenco degli Psicoterapeuti della Regione Marche. E’ membro della Scuola Europea di Psicoanalisi e dell’ Associazione Mondiale di Psicoanalisi. E’ autore di numerose pubblicazioni. Attualmente è Direttore Consultorio Familiare Zona 13