E’ fin troppo ovvio sottolineare che un individuo ammalato e consapevole della gravità della propria malattia vada incontro ad una situazione di forte stress emozionale.
La malattia è sentita come un attacco alla propria integrità, alla propria immagine, alla padronanza, fin lì sperimentata, del proprio corpo. Più la degradazione fisica avanza, più ci si avvicina alla morte, più il paziente si sente tradito dal proprio corpo, si sente minacciato nella propria unità. E ciò genera un vissuto difficile da gestire.
Il dolore psichico che ogni malattia organica reca con sè, tanto più essa è dirompente, mette in moto nell’individuo una serie di risposte psicologiche che si riflettono nel modo con cui affronta la propria malattia. La malattia non colpisce solo il corpo, ma anche la psiche e tutto il sistema di relazioni sociali e familiari che ruota attorno al malato. La morte non è soltanto una ‘catastrofe biologica’, ma anche un ‘avvenimento psichico’. Quando si tratta di affrontare concretamente i problemi connessi a questi temi non sempre si è preparati come sarebbe necessario. Non è raro, ad esempio, incontrare nelle persone che si occupano della persona ammalata una presa di distanza più o meno consapevole. E’ necessario pertanto riflettere su questo tema e cercare di individuare le misure per migliorare la qualità della vita di queste persone. La questione fondamentale nell’assistenza delle persone affette da una malattia oncologica risiede proprio in questo apparente paradosso: assicurare la migliore qualità della vita proprio nel momento in cui la morte potenzialmente fa capolino nella vita di una persona malata. E’ qui che risiede la difficoltà di coloro che si prendono cura di questo tipo di pazienti. Si tratta di comprendere come relazionarsi con il malato terminale per tentare di dare senso all’ultimo tragitto sua esistenza. Ritengo che ciò che è possibile fare per il malato terminale dipende da tutto ciò che è stato fatto a partire dal momento della diagnosi e della presa in carico. La fase terminale non può è essere pensata come un momento del decorso della malattia slegato da tutto ciò che l’ha preceduta.
Decorso tipico della malattia
Gli autori che hanno studiato la risposta psicologica delle persone di fronte ad una diagnosi infausta, concordano sul fatto che, a partire dalla comparsa dei primi sintomi, si susseguono, con una certa regolarità, una serie di passaggi tipici, strettamente legati al decorso della malattia. Queste fasi possiamo così riassumerle:
1- FASE DEL DUBBIO
2- FASE DELLA DIAGNOSI
3- FASE DEL TRATTAMENTO TERAPEUTICO
4- FASE DELLA REMISSIONE DEI SINTOMI
5- FASE DELLA RIPRESA DELLA MALATTIA
6- FASE TERMINALE
FASE DEL DUBBIO
Nel momento in cui si presentano i sintomi iniziali della malattia, la persona, generalmente si mette in allarme. Allarme che genera un’ angoscia che perdura durante tutto l’iter dell’esecuzione degli accertamenti clinici. Il modo di controllare l’angoscia in questa fase passa attraverso la messa in atto di un meccanismo di difesa fondamentale, quello della negazione. La persona tende, cioè, a negare la possibilità di essere seriamente ammalata.Cosa del tutto comprensibile: nessuno a piacere di ammalarsi e soprattutto di ammalarsi gravemente fino a mettere a rischio la propria vita.
FASE DELLA DIAGNOSI
E’ una fase altamente problematica per il paziente (ma anche per i suoi familiari) quando si trova di fronte ad una diagnosi di una patologia a possibile esito infausto. Non può essere piacevole venire a conoscenza che si è, ad esempio, affetti da un cancro. Nel paziente viene evocata l’equazione (non più fantasmatica come nella fase precedente): ‘malattia uguale morte’ Anche in questa fase la prima reazione è quella della negazione a cui può far seguito una presa di coscienza della malattia, con una possibile alternanza di vissuti di angoscia e di fiducia nell’efficacia delle terapie
FASE DEL TRATTAMENTO TERAPEUTICO
Coincide con l’ingresso nella struttura ospedaliera per l’esecuzione di interventi e terapie più o meno complessi. In questa fase il paziente subisce una sorta di spersonalizzazione in quanto tende a percepirsi quasi unicamente come portatore di una malattia e non di individuo. Inoltre i disagi connessi a questa fase comprendono non soltanto l’essere sottoposto alle cure ma anche ai disagi, al malessere derivante dagli effetti collaterali particolarmente debilitanti delle cure stesse
FASE DELLA REMISSIONE DEI SINTOMI
Il paziente riacquista fiducia ed ottimismo grazie al miglioramento clinico conseguito con le terapie, recuperando anche una certa capacità progettuale rispetto alla propria vita. Crede, o almeno spera, di aver debellato definitivamente la propria malattia
FASE DELLA RIPRESA DELLA MALATTIA
Qualora si manifesti una ripresa della malattia il paziente corre, più ancora che nelle altre fasi, il rischio di sviluppare una psicopatologia. Se, infatti, il miglioramento clinico gli aveva offerto la speranza di aver superato definitivamente la malattia, la ricomparsa dei sintomi lo ripone in uno stato di allarme legato all’idea che si trova di fronte ad una malattia ormai incurabile
FASE TERMINALE
Vengono poste in essere le cure palliative per alleviare la sofferenza del paziente nell’ultimo periodo della sua vita. In ambito psicologico in questa fase è di primaria importanza cercare di capire le esigenze interiori del paziente e dei suoi familiari. Si tratta di accompagnare il paziente al proprio trapasso valorizzando soprattutto le potenzialità umane dei componenti del nucleo familiare e se possibile degli amici
FATTORI CHE DETERMINANO IL VISSUTO E LA REAZIONE ALLA MALATTIA
Questa prima schematizzazione delle risposte psicologiche alla malattia dobbiamo considerarlo un modello di carattere generale, un modello valido per tutti. Tuttavia tale modello di base fondato unicamente sul decorso tipico di una malattia grave deve tener necessariamente conto di una serie di altri fattori importantissimi che concorrono con il loro intreccio a determinare il modo con cui ciascun paziente affronta la malattia.
TIPO DI PATOLOGIA
Innanzitutto bisogna tener conto del tipo di patologia da cui si è colpiti. Più essa è grave e mette in pericolo la vita del paziente più è probabile che quest’ultimo incontrerà problemi ad elaborare ciò che gli sta accadendo e potrà, dunque, andare incontro a problemi psicologici anche rilevanti
FATTORI RELIGIOSI E CULTURALI
Notevole rilevanza l’ hanno anche i fattori religiosi e culturale. Se una persona è credente, è supportata da una vera fede, tenderà a vivere la propria morte non come la fine della vita ma come un passaggio dalla vita terrena a quella ultraterrena e sarà perciò in grado di affrontare la sua nuova situazione esistenziale in modo psicologicamente più adeguato. Ma, al di là della fede, analogo sostegno si può acquisire da una formazione culturale laica quando quest’ultima non si limita ad essere semplicemente una forma di acculturazione ma, al contrario, un sapere che ha plasmato ed indirizzato in modo fortemente ideale la propria esistenza.
SUPPORTO PSICOLOGICO E SOCIALE
Un’altra variabile che entra in gioco è il tipo di supporto psicologico e sociale di cui può eventualmente avvalersi il paziente. Supporto che deve essere presente all’interno della struttura curante, all’interno della propria famiglia, e nell’intervento degli operatori delle Associazioni di volontariato.
STILE DI COPING
Un parametro di grande rilevanza, forse il più rilevante, è ciò che viene definito lo stile di coping. Vale a dire la capacità psicologica che l’individuo ha da sempre a disposizione per affrontare i problemi rilevanti che incontra nella vita; a maggior ragione quando incontra ‘l’evento morte’.
ALTRI FATTORI
Altri fattori importanti risultano essere l’età del paziente, l’esistenza di patologie psichiatriche pregresse, il livello della qualità della vita precedente lo stato della malattia
I DIVERSI STILI DI COPING
– Atteggiamento combattivo
– Atteggiamento di negazione-evitamento
– Atteggiamento fatalistico
– Atteggiamneto di preoccupazione ansiosa
– Atteggiamneto di disperazione
ATTEGGIAMENTO COMBATTIVO
Si tratta di un atteggiamento di fiducia nelle proprie capacità di fronteggiare e magari sconfiggere la malattia. Il paziente cerca di reagire positivamente e costruttivamente alla malattia. La presenza di ansia e depressione è moderata
ATTEGGIAMENTO DI NEGAZIONE/EVITAMENTO
E’ un atteggiamento teso a minimizzare l’entità e la gravità della malattia. Il paziente assume un atteggiamento di distacco nei confronti di tutto ciò che gli sta accadendo. Mancano ansia e depressione
ATTEGGIAMENTO FATALISTICO
Atteggiamento caratterizzato dalla passività e dall’assenza di combattività nei confronti della malattia
ATTEGGIAMENTO DI PREOCCUPAZIONE ANSIOSA
Presenza di elevati livelli di ansia con ripercussioni significative sulla qualità di vita del paziente
ATTEGGIAMENTO DI DISPERAZIONE
Sensazione di sconfitta e di ineluttabilità del male, presenza di vissuti depressivi, spesso accompagnati da mancata adesione alle terapie
STILE DI COPING
E’ evidente che lo stile di coping abbia una notevole rilevanza rispetto:
– alle ripercussioni sulla modalità di reazione psicologica e sull’adattamento psico-sociale alla malattia
– alle possibili complicanze psicopatologiche
– alla qualità della vita successiva alla diagnosi di neoplasia (o altra malattia dai possibili esiti mortali)
– alla collaborazione del paziente ai trattamenti messi in atto,
– e con molta probabilità anche sul decorso biologico e sulla stessa prognosi della malattia
Rispetto a quest’ultimo punto si è, infatti, potuto constatare che una modalità disadattiva di coping nei confronti della malattia neoplastica, e non solo, ha ripercussioni negative anche sulla funzione immunitaria. In questo senso un atteggiamento combattivo nei confronti della malattia è correlabile ad una prognosi migliore rispetto ad un atteggiamento improntato a passività e a disperazione
Le considerazioni che si possono trarre da quanto detto è che fin dall’inizio della presa in carico del paziente è necessario lavorare alla costruzione di una ‘alleanza terapeutica’ tra il paziente, i suoi familiari, l’equipe curante, gli operatori che operano nel volontariato. Tanto più forte sarà ‘l’alleanza terapeutica’ tanto più sarà possibile approntare un intervento corretto sia sotto il profilo medico, etico, psicologico, sociale. L’importante è non limitarsi ad un intervento centrato sulla malattia bensì teso alla realizzazione di una vera presa in carico del paziente. Tanto più l’intervento sarà centrato sul paziente maggiori saranno le possibilità di aiutarlo.
PRESA IN CARICO E STILE DI COPING
L’elemento principale che deve essere attentamente valutato fin dall’inizio, senza trascurare le altre variabili in gioco, è lo stile di coping del paziente. Se non conosciamo il suo stile rischiamo di commettere errori rilevanti che poi si ripercuoteranno su tutte le varie fasi della malattia. E’ a seconda dello stile di coping del paziente che, ad esempio, possiamo trovare la modalità più adeguata per comunicare la diagnosi al paziente. Non esiste un’unica modalità di comunicazione della diagnosi poiché tale modalità deve tener conto della reazione psicologica del paziente alla diagnosi. Valutare il coping del paziente è utile, dunque, in ogni passaggio significativo del quadro della malattia
LA FAMIGLIA
Fondamentale è anche il rapporto tra gli operatori ed i familiari della persona malata, poiché anche loro hanno un proprio stile di coping. Il coping del paziente ha degli effetti sui componenti del nucleo familiare così come il coping dei familiari si ripercuote sul paziente stesso.E’ soltanto nella misura in cui si tiene conto di questo stile che possiamo accompagnare in modo corretto il paziente anche nella fase terminale della malattia.
FASE TERMINALE
La fase terminale è strettamente legata a tutto ciò che è stato fatto precedentemente. La fase terminale della malattia non può essere slegata dalle le fasi che l’anno preceduta.
ALLEANZA TERAPEUTICA
E’ in questo senso che è essenziale stabilire un’efficace ‘alleanza terapeutica’. E’ a seconda di come impostiamo la relazione con il paziente e con i suoi familiari che l’intervento terapeutico può prendere strade diverse che mostreranno la loro bontà o i loro limiti soprattutto nella fase terminale della malattia.
CHE COS’E’ L’ ALLEANZA TERAPEUTICA
Consiste nell’instaurare fin dall’inizio non solo un canale informativo tra chi cura e chi è curato (operazione che può risultare molto asettica), quanto piuttosto nel tener conto che utilizzando il canale informativo automaticamente si apre una dimensione comunicativa, relazionale. La comunicazione infatti mette in relazione le persone, mentre l’informazione tende a mettere fuori gioco la relazione interpersonale. Alleanza terapeutica è sinonimo di costruzione di un rapporto interpersonale in cui non è in gioco solo il ruolo del medico e del malato, ma anche la persona del medico e quella del malato (oltre a coloro che ruotano attorno alla vita del paziente). E’ ampiamente dimostrato che un’efficace relazione interpersonale tra l’equipe curante, il malato ed i suoi familiari, costituisce un potente fattore terapeutico. Tanto più questa relazione è disturbata tanto più essa interferisce negativamente sul processo di cura. Non dobbiamo poi dimenticare che negli esseri umani non esiste solo la comunicazione verbale ma anche quella non verbale. Accade così che tutto ciò che non vorremmo comunicare verbalmente lo trasmettiamo, comunque, attraverso gesti, silenzi, tono della voce, postura, ecc… A nostra insaputa il paziente ed i familiari arrivano a percepire che c’è qualche cosa che non dichiariamo apertamente. Ne vengono a conoscenza ma in maniera confusa, non chiara, e questo oltre a provocare ulteriore angoscia rischia di far venire meno la fiducia nei confronti del personale curante.
Cosa fare con un paziente terminale?
Tornando al rapporto medico-paziente è importante soffermarci su una questione centrale: il paziente deve sapere oppure deve essere tenuto all’oscuro del suo destino?
Questo interrogativo, che dobbiamo porci fin dall’inizio della presa in carico, nella cultura occidentale non ha ricevuto una risposta univoca. Le opinioni sono divergenti anche tra gli stessi medici:
– nei paesi di lingua anglosassone e del Nord Europa prevale la tesi che i pazienti ‘debbano sapere’
– nel resto dell’Europa, nell’Europa latina, la tesi prevalente è bene che i pazienti non sappiano, che rimangano all’oscuro del destino che li attende
Si tratta dunque di una questione aperta perché i presupposti etici su cui si fondano queste due modalità di rapportarsi al paziente differiscono. Tutti e due i tipi di risposta sono etici, ma fanno riferimento a principi etici diversi. Principi etici che sono sempre esistiti all’interno della filosofia. Nel primo caso abbiamo a che fare con un’etica deontologica (che possiamo far risalire a Kant), nel secondo con un’etica delle conseguenze
ETICA DEONTOLOGICA
La prima accezione etica si fonda su un concetto centrale: la dignità dell’essere umano va salvaguardata prima di ogni altra cosa e un uomo al quale si nasconde la verità sulla propria vita è un uomo a cui non riconosciamo più alcuna dignità, alcuna integrità, alcun diritto. Non lo consideriamo più, in senso stretto, un uomo bensì un oggetto. Da questo punto di vista i medici che rivelano al paziente il destino che lo attende non mettono in primo piano gli effetti psicologici che tale scelta può procurare nel paziente, non tengono conto della particolarità della persona ma si attengono ad un principio morale, etico%