Capodarco è una piccola località. Prima era in provincia di Ascoli Piceno, ora di Fermo. Anche la sua collocazione geografica sembra precaria: una collinetta in bilico sull’Adriatico, circondata di campi e sperduta in fondo a una stradina di campagna. In questa periferia marchigiana vive don Vinicio Albanesi con nove famiglie e alcune decine di persone con disabilità. la comunità di capodarco è la casa per lui, prete impregnato di quelle periferie geografiche ed esistenziali di cui parla spesso papa francesco. A queste periferieche hanno plasmato e forgiato la sua esistenza – è affezionato, ci torna e ci resta. Carismatico ma restio alla carriera ecclesiastica che gli veniva prospettata da giovane prete, così come l’inserimento in una parrocchia all’ombra del Cupolone, don Vinicio Albanesi ha deciso di tornare fra queste colline dolci e, soprattutto, a quella stanza dalla cui finestra vede il mare ogni mattina: «Riflette il cielo e se stesso, cambia colore».
Ma, ovviamente, non si tratta solo di passione per la bellezza del creato, parallela a quella per le icone russe: «Chi visita la comunità si accorge del clima diverso, non riesce a intuire cosa lo rende speciale. È l’amalgama delle risposte ai bisogni, in clima affettivo e familiare», spiega. E aggiunge: «Noi viviamo in una tenda fatta di fango, ma siamo chiamati ad alzare gli occhi per guardare questa fetta di cielo. Inferno e paradiso sono miscelati in ognuno. Una volta siamo eroi e martiri, un’altra volta piccoli vermi. Alle nuove generazioni ripeto sempre che la vita è molto bella, bisogna affrontarla con coraggio e speranza. Io ne ho avuta una felice e privilegiata», confida con un sorriso rapido.
A settant’anni compiuti, don Vinicio guarda con disincanto e serenità agli anni difficili della formazione: «Nei seminari ho respirato un clima di imposizione. Ma a vent’anni ho deciso, più che di essere prete, di diventare prete». Un percorso segnato negli anni Sessanta, mentre completava gli studi in diritto canonico allaGregoriana, dall’esperienza come viceparroco e come assistente dei giovani universitari a Roma. «In realtà sono stati loro a fare da assistente a me, che avevo tre o quattro anni più di loro. Eccetto l’omicidio, ho confessato di tutto», ricorda.
Tornato nelle Marche, per il sacerdote è cominciata «la grande sfida del welfare: le persone con disabilità viaggiavano nei carri merce insieme alla posta. Al mare ci dicevano che i clienti non gradivano vedere le gambe storte dei polio- melitici. La Comunità di Capodarco – chiamata anche da qualcuno “comunità degli spastici” – faceva eco, ma nella concezione popolare veniva ritenuta un luogo dove abitavano i figli dei fiori». Poi cita «la battaglia per le disabilità mentali (e la conseguente chiusura dei manicomi con la legge Basaglia, ndr): la gente o li scaricava, come fa adesso, o li teneva chiusi a casa. Erano scarti, vuoti a perdere».
negli anni ottanta don albanesi conosce don Luigi Ciotti, don Andrea Gallo e con loro sorgono le prime comunità per tossicodipendenti, immigrati, emarginati. Prende contatti con i politici e con il mondo dell’informazione, «ma mi sono accorto che era fasullo. Dopo un’intervista, strumentalizzata, sulla legge Bossi-Fini, ho capito che potevo essere una pedina precisa nel pianeta che loro avevano costituito».
Negli anni Novanta per don Vinicio si apre «un orizzonte internazionale con nuovi progetti anche all’estero. Quando parla papa Bergoglio, lo sento come fosse una musica, perché conosco l’approccio dei vescovi latinoamericani». e nel terzo millennio le emergenze si moltiplicano: «Dai papà soli con figli agli anziani, dall’abuso di psicofarmaci fra i giovani al divario crescente tra ricchi e poveri».
In queste fragilità, il sacerdote ha incontrato e incontra il Signore: «dio l’ho incontrato quando sono andato a ricercare colui con cui potevo dialogare. ho seguito la strada che veniva dal mondo. Vedevo tanto dolore e sofferenza; mentre cercavo di leggere questa storia, ho ritrovato il Dio misericordioso. Ognuno di noi ha una sua strada e deve trovare un suo aggancio all’eternità. Fare il percorso dà aria, respiro. Quando dico “ama il prossimo tuo come te stesso”, trovo il fondamento della felicità e non ho più dubbi; da questo traggo respiro. E il paradiso lo immagino come manifestazione eterna di quello che non ho capito, di tutti i misteri che non ho compreso: Dio mi rivelerà tutti i collegamenti. Questo vale anche per il sociale: nella vita vissuta trovo storie che sono segni, poi gli autori cercano di interpretarli rielaborando il loro futuro».
lo stile periferico, per così dire, permette a un prete di «stare a fianco del suo popolo, di solidarizzare con la gente che sta al chiodo, accanto al padre che lavora e alla madre che accudisce i figli. Ricordo sempre mia madre, che mi ha dato tanto e mi ha consentito di studiare, facendo molti sacrifici. La chiamo santità feriale». E il tempo quaresimale che si avvicina, vissuto a Capodarco, fa leggere con accenti particolarmente caldi le parole di papa Francesco nel suo messaggio per la Quaresima: «dio non si rivela con i mezzi della potenza e della ricchezza del mondo, ma con quelli della debolezza e della povertà», scrive Bergoglio. «Per chi sperimenta le fragilità umane è facile comprendere che cosa significa essere al fianco di chi è in difficoltà: viene spontaneo pensare a Dio misericordioso, di una misericordia attenta a lenire sofferenze e solitudini. Circondati da indifferenza, se non vero e proprio di- sprezzo, appellarsi a Dio e riferirsi ai suoi modi di pensare e di agire è consolatorio. A volte i risultati non sono definitivi: il sollievo è che ogni goccia d’acqua è utile per spegnere l’incendio del male, anche se non è in nostro potere farlo scomparire. Possiamo solo adoperarci perché non persista o, comunque, perché arrechi meno sofferenza possibile». Succede incontrando le persone con gravi disabilità fisiche e psichiche, «non dimenticando nessuno dei loro nomi e dei loro volti». Così «la povertà dell’essere umano, assunta da Dio, è divenuta sacralità, santità».
Qualche lampo di tenerezza, nonostante il suo carattere ruvido, poi don Vinicio torna alla sua consueta parresia (il parlare franco e traspa- rente, ndr), tra il rigore del canonista e l’umanità del pastore, quando esplicita la sua visione del condividere: «Significa assumere il male su di sé per impedire che produca sofferenza; è sufficiente farsi carico della condizione di chi è accanto. Produce risposte, crea vicinanza e rispetto, soprattutto permette di essere generosi e comprensivi. I giudizi sono lontani, le paure vinte: rimangono accanto a te creatu- re che hanno bisogno delle tue risorse e delle tue capacità. Donare diventa addirittura un beneficio per chi è disponibile. Un po’ come per Dio il quale ha creato, ha salvato, ha aiutato non perché ne avesse bisogno, ma per pura vicinanza».